Corpo, suono e sostanza

Viaggio nell’ebbrezza e nel controllo

Parte 1 – Riti, ritmo e visione

Una notizia ha fatto il giro dei social: «I decessi legati alla ketamina sono aumentati del 2000 % dal 2014». Un numero che colpisce, ma che andrebbe compreso prima che temuto: l’aumento percentuale nasce da valori minimi, più sintomo culturale che emergenza sanitaria. Resta però una domanda: perché un anestetico nato per addormentare i corpi in sala operatoria è diventato il simbolo di una generazione che cerca di restare sveglia?

Ogni epoca ha la sua droga — non tanto per moda o chimica, ma per necessità di significato. L’essere umano non ha mai smesso di cercare un altrove: un varco, un’estasi, una fenditura nel reale da cui scorgere il mistero. Ma la direzione di quella fuga racconta sempre il suo tempo: è una salita o uno sprofondamento?

Molto prima che la musica fosse intrattenimento, era una tecnologia spirituale. Nelle civiltà antiche, suono e sostanza convivevano come strumenti per attraversare la soglia dell’ordinario. Nei Misteri Eleusini, l’infuso di orzo e segale — il kykeon — conteneva probabilmente un alcaloide psichedelico, forse derivato dall’ergot. Ma il punto non era la sostanza: era la cornice. Processioni, silenzi, preparazione. Chi beveva lo faceva in stato di dedizione, immerso nel canto e nella notte. Nelle foreste amazzoniche, l’ayahuasca veniva assunta dopo digiuni, preghiere e astinenze sessuali. Non era un party: era una pedagogia. L’allucinazione non serviva a stonarsi, ma a vedere con altri occhi. Il corpo, il suono e il respiro erano parte di un unico dispositivo conoscitivo.

Non c’era consumo: c’era consacrazione.

Oggi, quando un beat elettronico rimbomba in uno spazio buio, qualcosa di quella memoria si risveglia. Ma manca il contorno: il rito, il silenzio, la preparazione. Senza contesto, l’esperienza non apre: ottunde. Abbiamo moltiplicato i momenti di “libertà” fino a renderli obbligatori. Ogni weekend la stessa formula: luci, bassi, sostanze. Un rito ripetuto senza intenzione perde potenza: diventa gesto automatico, anestesia del presente. Dove gli antichi incontravano la trascendenza in rare cerimonie, noi la riproduciamo in serie. E così, invece di espandere la coscienza, la saturiamo.

La ketamina — dissociativo per eccellenza — è il simbolo perfetto di questa condizione: non ci fa viaggiare, ci stacca. Ci permette di essere altrove mentre restiamo qui. Il corpo vibra, ma non sente.

Tutti i riti antichi conoscevano il potere del ritmo. Il battito del tamburo sincronizza cuore e respiro: una forma di ipnosi naturale. L’etnomusicologo Gilbert Rouget spiegava che la trance nasce dal rapporto sociale tra suono e gruppo: canto collettivo, danza circolare, respiro comune. Nel mondo elettronico quel ritmo ritorna in altre forme — techno, ambient, trance, downtempo — musiche che modulano la coscienza, ma spesso senza contesto simbolico. Il dancefloor a volte sfiora il sacro; più spesso, però, il rito è stato spogliato del suo senso. È rimasto il tamburo, è scomparsa la visione.

Nelle società arcaiche, l’ebbrezza non era giudicata ma disciplinata. Gli sciamani bevevano per servire il gruppo. Dioniso non era il dio del caos, ma dell’ordine superiore che solo l’ebbrezza può rivelare. Oggi, senza mitologia né rito, l’uomo tenta la stessa esperienza con strumenti nuovi ma senza cornice: la chimica sostituisce il simbolo, il suono il canto, la folla la comunità. Risultato: più libertà apparente, meno significato reale. Il rito non è più un viaggio condiviso, ma una deriva individuale in mezzo agli altri.

Ogni sostanza, in sé, è neutra: è l’intenzione che la trasforma in strumento o trappola. Forse l’errore non è nel cercare, ma nel farlo senza linguaggio. C’è un filo che unisce il tamburo africano a un impianto Funktion-One: la vibrazione fisica. Nel suono profondo il corpo si riappropria del suo posto. Ma per farne esperienza occorre tornare a sentire. Il problema non è la musica, né la sostanza: è il modo in cui ci stiamo dentro. Forse dovremmo ricominciare a trattare il dancefloor come un luogo di esperienza sensoriale totale, non come fabbrica di stordimento. Ridare al corpo il diritto di percepire, non solo di resistere. E forse allora, anche senza sostanze, potremmo tornare a uscire da noi stessi per davvero.

Soundtrack of the Ancients

  • Hildegard von Bingen – O Eucari in Leta Via
  • Piero Umiliani – Synthi Time
  • Jon Hassell – Last Night the Moon Came
  • Voices from the Lake – Inside the Outside
  • Ryuichi Sakamoto & Alva Noto – By This River (live)
  • Brian Eno – An Ending (Ascent)

Parte 2 – Il secolo del suono sintetico

Nel Novecento il desiderio di alterazione assume nuove forme: i generi musicali diventano esperimenti sociali, e il suono si intreccia con la chimica in un dialogo costante tra corpo, cultura e tecnologia. Ogni epoca cerca una via d’uscita e la trova in una diversa combinazione di note e molecole. Jazz, rock, disco, techno: quattro linguaggi per raccontare la stessa inquietudine.

Jazz – la tregua del corpo. Nelle sale fumose di Harlem l’eroina accompagna la malinconia. Per Charlie Parker o Billie Holiday non è euforia, ma tregua. Nel jazz, l’oppio non produce fuga ma una forma di sopravvivenza estetica.

LSD – la promessa dell’universo. Negli anni Sessanta la controcultura invoca l’espansione della mente: turn on, tune in, drop out. Il rock psichedelico crede di poter spalancare la realtà e per un istante ci riesce. Poi la visione si frantuma: l’espansione diventa labirinto.

Anni Settanta – la corsa e la caduta. La cocaina sostituisce l’eroina: non più malinconia, ma efficienza. La disco costruisce templi di luce, il punk scava scantinati di rabbia. Entrambi vivono come se il domani fosse un errore di stampa.

House, rave, MDMA – l’utopia del noi. A Chicago e Detroit le macchine imparano a suonare l’anima. L’MDMA diventa il codice chimico dell’unione, la formula di una spiritualità laica nata dai resti dell’industria. Per un istante il confine tra individuo e gruppo si scioglie.

La storia non procede per sostituzioni ma per accumuli. Ogni generazione eredita e mescola le sostanze come i generi musicali. Nella scena rave l’ecstasy accende la comunione, la ketamina ne rallenta il battito, l’acido riapre le porte — tutto nello stesso flusso, nella stessa notte. È un mosaico chimico che riflette la complessità del corpo sociale: euforia e sospensione, contatto e fuga, spinta e resa, tutte insieme sullo stesso dancefloor.

Il nuovo millennio – la stanchezza e l’oblio. La ketamina entra nei club come anestetico travestito da esperienza: la sostanza di una generazione che preferisce galleggiare invece di combattere. Nel suono di Burial, Actress o Kode9 l’energia non esplode più: vibra, si ritrae, si dissolve. La dissociazione non è solo farmacologica: è culturale.

Soundtrack of the Fall

  • Billie Holiday – Don’t Explain
  • The Velvet Underground – Heroin
  • Jefferson Airplane – White Rabbit
  • The Beatles – Tomorrow Never Knows
  • The Prodigy – Voodoo People
  • Underworld – Born Slippy
  • Kode9 feat. Warrior Queen – Sine of the Dub
  • Burial – Archangel
  • Actress – Hubble

Parte 3 – Punire o capire

Per decenni le politiche sulle droghe hanno trattato le sostanze come un nemico esterno, senza interrogarsi sul contesto che ne alimenta il bisogno. L’impulso ad alterare la percezione nasce dentro la cultura che lo condanna. C’è chi cerca di espandere la mente — un privilegio quasi borghese — e chi tenta solo di sopravvivere. Quando le diseguaglianze crescono, le sostanze diventano anestetici sociali: strumenti per rendere sopportabile ciò che non si può cambiare. In alto si cerca il senso, in basso il sollievo. Ma in entrambi i casi il vuoto è lo stesso.

Punire l’uso significa punire il desiderio umano di sentire di più. La “War on Drugs” americana incarcerò milioni di persone senza ridurre il consumo, mentre in Portogallo la depenalizzazione e i servizi salvarono vite. Dove la dipendenza è trattata come questione di salute, non di polizia, la società guarisce. Ogni overdose evitata vale più di mille proclami.

In Italia, la legge del 1990 resta il riferimento. I SerD lavorano con organici ridotti e la riduzione del danno è nei LEA ma senza fondi. Il risultato è un sistema che punisce più di quanto comprenda. Punire è comodo: costa meno che capire. Ma la punizione divide, crea un “noi” e un “loro”. Ogni società decide a chi perdonare il desiderio: il vino è cultura, la cannabis devianza.

Durante la crisi del 2008 oltre trecento miliardi di dollari provenienti dai traffici di droga entrarono nei circuiti finanziari globali per mantenere a galla le banche. Antonio Maria Costa, direttore UNODC, dichiarò che “in molti casi il denaro della droga è stato l’unico capitale liquido disponibile”. Le stesse istituzioni che oggi finanziano campagne contro l’abuso di sostanze furono allora sostenute dai suoi proventi. La dipendenza non è solo dei corpi, ma del capitale stesso.

Oggi la finanza non ha più bisogno dei narcodollari: ne ha interiorizzato la logica. Funziona come il mercato della droga — creare dipendenza, alzare la soglia, moltiplicare il bisogno. Ora la sostanza non è più polvere: è consumo, velocità, distrazione.

Anche lo spacciatore raramente finisce in carcere. L’ultimo anello della catena è spesso un ragazzo con più debiti che droga, mentre i vertici siedono in giacca e cravatta. Il “punire” è diventato uno slogan politico, un linguaggio di consenso. Si colpisce la parte visibile, non quella decisiva.

Dalla cocaina nei container di Gioia Tauro ai conti HSBC che lavarono i dollari del cartello di Sinaloa, fino al Captagon che finanzia le milizie in Siria, cambia solo la geografia del potere. Il denaro non si ferma davanti alla legge: la aggira. Quando emerge lo scandalo, i profitti sono già reinvestiti. Non è questione di chimica, ma di struttura. La sostanza cambia nome, la catena resta.

Ogni sabato sera, settanta o ottanta euro passano di mano per acquistare una fuga temporanea. Dentro quel denaro c’è, quasi sempre, un contributo involontario al peggior malaffare del pianeta. È un gesto minuscolo, ma moltiplicato per milioni di persone diventa una finanziaria parallela. Chi cerca libertà finisce per alimentare — senza saperlo — la propria prigione.

Non è moralismo, ma consapevolezza. Ogni volta che la coscienza si spegne, qualcun altro decide dove andrà il denaro, chi potrà vivere e chi no. I soldi non hanno ideologia: passano dalle mani di chi soffre a quelle di chi bombarda. L’alterazione, nata come fuga individuale, finisce per sostenere il sistema che ci tiene fermi.

Non è un atto d’accusa, ma un appello. Per ricordare che l’unico vero viaggio psichedelico, oggi, è quello verso la consapevolezza collettiva. La musica, ancora una volta, può aprire un varco: non per scappare, ma per restare lucidi insieme.

Soundtrack of Care

  • Prince – Sign o’ the Times
  • Massive Attack – Teardrop
  • Piero Umiliani – Tempo Sospeso
  • Kode9 – 9 Samurai
  • Jeff Mills – The Bells
  • Jon Hopkins – Open Eye Signal
  • Ryuichi Sakamoto – Andata (Solo Piano)

Fonti principali

  • Office for National Statistics (UK), Drug poisoning deaths, 2022.
  • Wasson, Hofmann, Ruck, The Road to Eleusis, 1978.
  • Gilbert Rouget, La musique et la transe, 1980.
  • Johann Hari, Chasing the Scream, 2015.
  • Timothy Leary, Flashbacks, 1983.
  • Simon Reynolds, Energy Flash, 1998.
  • Mark Fisher, Ghosts of My Life, 2014.
  • UNODC (2009), “The Global Drug Trade and the Financial Crisis”.
  • EMCDDA, Portugal: Drug Policy Profile, 2021.
  • Relazione annuale al Parlamento sulle tossicodipendenze (Italia, 2023).
  • US Senate Report on HSBC and Sinaloa Cartel (2012).
  • BBC / The Guardian (2023), inchieste su Captagon e traffici siriani.
DANCITY. IT’S A RITUAL.

Il Dancity Mag nasce dall’associazione culturale Dancity, da sempre impegnata nella promozione della musica e della cultura contemporanea. L’associazione vi invita a partecipare alla prossima edizione invernale del Festival, in programma il 7 e l’8 dicembre 2025 a Perugia. Biglietti disponibili su DICE.

PayPal Sostieni Dancity

Il nostro progetto è indipendente e senza fini di lucro.
Se ti piace quello che facciamo, puoi aiutarci con una piccola donazione.

Hai un ricordo del Dancity?

Racconta la tua esperienza, carica foto e aiutaci a tenere viva la memoria collettiva!

Compila il form ✍️

Questo articolo è stato prodotto con il supporto di strumenti di intelligenza artificiale, utilizzati per l’organizzazione dei contenuti e l’ottimizzazione testuale. Le fonti, le idee e i materiali provengono dall’archivio e dall’attività dell’Associazione Dancity.

0 Condivisioni